Ciò che più ferisce nell'atroce sberleffo rivolto ai deportati che
varcavano la soglia del lager di Auschwitz, a ben vedere, è che la
proposizione in cui esso consiste può essere vera: esiste un lavoro nel
quale la persona si realizza, un lavoro che produce e garantisce la sua
libertà. Lo scherno sta nell'omonimia tra questo lavoro e il lavoro
disumanizazante dello schiavo, della persona ridotta a strumento, o
addirittura della persona che attraverso il lavoro massacrante viene
uccisa. La perfidia nazista sta nell'uso di questa omonimia per
irridere, con la menzione del lavoro nella sua accezione più alta,
milioni di persone che prorpio attraverso il lavoro nell'altra
accezione, quella infernale, stanno per percorrere l'ultimo tratto del
percorso loro riservato verso lo sterminio. (Pietro Ichino, Il lavoro che uccide il lavoro che salva, data consultazione: 12/06/19)
"Arbeit macht frei", Primo Levi (primolevi.it, data consultazione:12/06/19):
"Erano queste le parole che si leggevano sul cancello di
ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il
lavoro rende liberi»; [...] a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press’a poco
così:
«Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
[...] Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano".
«Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
[...] Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano".
"I sommersi e i salvati", Primo Levi:
"A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano a essere inseriti nel loro proprio mestiere [...]; questi, ritrovando la loro occupazione consueta, recuperavano in pari tempo, in certamisura, la loro dignità umana".
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